Immigrazione: costo o beneficio per l'economia?

Un immigrato avrebbe fino a tre volte più probabilità di avviare un’impresa e fino a quattro di depositare un brevetto, per non parlare di Nobel...

Emigrazione, costo o beneficio?

Emigrazione, costo o beneficio? Source: Flickr

La migrazione è un’espressione di "aspirazione alla dignità, alla sicurezza e alla speranza in un futuro migliore". Questo pensiero dell’ex-segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon stride con i toni e le argomentazioni che spesso accompagnano il dibattito pubblico sul tema.

Negli ultimi anni il fenomeno migratorio è diventato strumento di propaganda politica in molte democrazie occidentali, e soprattutto dopo la crisi del 2007-2008 la prospettiva economica ha avuto un peso sempre maggiore. Chi critica le politiche di accoglienza spesso descrive il fenomeno come un peso che la cittadinanza deve sostenere: gli immigrati ‘costerebbero’ al Paese che li accoglie, ma quali sono i dati che avvalorano questa tesi?

Uno studio dal titolo “Migration and the Economy: Economic Realities, Social Impacts and Political Choice” getta nuove luci sull’argomento interrogandosi proprio su quale sia il rapporto tra costi e benefici economici del fenomeno migratorio.

Il rapporto pubblicato dall’istituto finanziario Citi GPS: Global Perspectives & Solutions ha analizzato l’immigrazione nel suo impatto economico in contesti ‘economicamente avanzati’ come l’Europa e gli Stati Uniti, dove il fenomeno sembra dividere e preoccupare l’opinione pubblica più che altrove.
Nuovi e interessanti dati sono emersi dalla ricerca, oltre a qualche curiosità. Ad esempio, la popolazione di origine straniera avrebbe fino a tre volte più probabilità di avviare un’impresa e fino a quattro volte più probabilità di depositare un brevetto, rispetto al resto della popolazione nata e cresciuta nel Paese di accoglienza. Addirittura, è di tre volte superiore il numero di premi Nobel con una storia personale di emigrazione rispetto a quello dei colleghi ‘più stanziali’.

Lo studio è stato condotto con la supervisione del Professor Ian Goldin, della Oxford Martin School, e anche autore di un libro del 2011 intitolato “Exceptional People: How Migration Shaped our World and Will define Our Future”.
La percezione del fenomeno, sembra sottolineare il rapporto, sarebbe molto distante dalla realtà.
Seppure dal 1990 la popolazione migrante sia aumentata, oggi rappresenta il 3% della popolazione mondiale. Fino agli anni ’90 i migranti rappresentavano invece il 2% della popolazione mondiale. Se si guarda il dato in termini relativi, il quadro risulta ben diverso dall’idea di massa inarrestabile con cui viene spesso dipinto.

Inoltre, analizzando i dati prettamente economici è stato studiato l’impatto dell’ingresso di lavori stranieri. Gli immigrati qualificati si concentrano in aree circoscritte e nei centri urbani. I paesi OSCE infatti sono la meta di due terzi degli immigrati qualificati, soprattutto gli Stati Uniti, il Canada, l'Inghilterra e l'Australia ne attraggono il 70%.

La popolazione migrante è nella maggior parte dei casi più giovane della media nei paesi che la ospitano, in questa prospettiva costituisce un aumento della forza lavoro e un abbassamento dell’età demografica. Nel 2017 tre quarti dei migranti era in età da lavoro, rispetto al 57% della popolazione globale. In circa la metà dei paesi del mondo, si registrano problemi legati alla fertilità e gli abitanti over 60 passeranno dai 962 milioni di oggi a oltre 2 miliardi nel 2050.
La migrazione quindi potrebbe diventare un elemento determinante per far fronte alla spesa sociale di una popolazione che invecchia.
Per quel che riguarda i costi sulla spesa pubblica, lo studio ha messo in evidenza che gli immigrati utilizzano in media meno servizi pubblici e forme di sostegno sociale se paragonati ai cittadini non immigrati. In Canada, ad esempio, è stato dimostrato che un rifugiato richiede meno sussidi di disoccupazione e si appoggia meno alla previdenza sociale.
Oltre al minore impatto sulla spesa sociale, l’ingresso di immigrati dotati di conoscenze e professionalità diverse accresce il livello della forza lavoro e riduce i costi legati ai training professionali.  Ad esempio, in Inghilterra i lavoratori stranieri costituiscono il 5,6% dell’intero corpo del servizio sanitario nazionale così come il 7% della forza lavoro impegnata nella cura degli anziani.

Diverse le stime invece se si guarda al livello di disoccupazione per gruppo etnico. In Inghilterra l’85% dei lavoratori di origine canadese ha un lavoro mentre è impiegata solo la metà dei rifugiati pakistani, iraniani e bengalesi ad esempio. Questo spesso riflette attitudini culturali specifiche, come la scarsa emancipazione femminile all’interno di alcune comunità.
In Germania e nel Regno Unito, ad esempio, se l'immigrazione fosse stata rimasta ferma al 1990, il PIL nel 2014 sarebbe stato rispettivamente di circa 155 miliardi di euro e 175 sterline miliardi inferiore.
Quindi, a prescindere da costi contenuti e limitati nel tempo, lo studio sembra evidenziare che a lungo termine l'immigrazione ha un impatto economico positivo sui Paesi ospitanti.

Per approfondire, clicca qui.

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Published

By Francesca Valdinoci

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