Venticinque anni fa, un 28enne di Hobart uccise 35 persone (tra le quali due bambine) e ne ferì altre 23 nei pressi della prigione-museo, macchiandosi del più grave spargimento di sangue con armi da fuoco nella storia contemporanea d'Australia.
Una vicenda - passata alla memoria come il massacro di Port Arthur - che il Paese seguì con il fiato sospeso per quasi 24 ore a cavallo tra il 28 e il 29 aprile 1996 e che ha lasciato tracce profonde negli atteggiamenti della società civile, oltre che nella legislazione australiana.

Un poliziotto ispeziona la vettura utilizzata dall'assalitore per raggiungere il sito della prigione-museo di Port Arthur Source: AAP Image/AP Photo/Rick Rycroft
La strage, infatti, non solo segnò la vita di decine di persone e la coscienza collettiva down under, ma rappresentò anche un momento di svolta nel rapporto tra gli australiani e le armi da fuoco.
La nazione, profondamente scossa dalla vicenda, fu attraversata da un sentimento di autocritica e rispose in massa all'invito del governo di consegnare le pistole e i fucili in circolazione: a un anno da quel 29 aprile 1996, gli australiani ne avevano già restituiti 383mila.
Se oggi il Paese è più sicuro di allora, è anche grazie all'assunzione di responsabilità dell'opinione pubblica e ai sentimenti di dolore e di sdegno provocati dal massacro di Port Arthur.

I resti del Seascape, il bed&breakfast nei pressi di Port Arthur nel quale è iniziato e finito il massacro Source: AAP Image/AP Photo/Rick Rycroft
Riascolta qui la ricostruzione del massacro di Port Arthur e delle sue conseguenze:
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