In Italia si è votato domenica 8 e lunedì 9 giugno per cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza.
Le urne sono state chiuse alle 15 (ora locale) e, come previsto dalla Costituzione, un referendum è valido solo se partecipa almeno il 50% più uno degli aventi diritto. Questa soglia non è stata raggiunta: l’affluenza si è fermata intorno al 30%, ben lontana dal quorum richiesto, e più bassa ancora se si include il voto degli italiani all’estero.
"La percentuale del 30% in realtà è una percentuale anche un po' falsata", osserva il giornalista Carlo Fusi, al microfono di SBS Italian. "Perché se poi dobbiamo conteggiare, come stanno facendo, anche il voto degli italiani all'estero, la percentuale si abbassa intorno al 27-28%, che è più bassa anche rispetto a quella del referendum sulle trivelle"; un dato che conferma la crescente disaffezione verso lo strumento referendario.
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I quesiti referendari erano cinque: quattro riguardavano il lavoro — due sul Jobs Act, uno sulla responsabilità delle ditte appaltanti e uno sui contratti a termine — e uno riguardava la cittadinanza, con la proposta di ridurre da dieci a cinque anni il tempo necessario per ottenere la cittadinanza italiana per gli immigrati.
Tra gli elettori che si sono recati alle urne, i “sì” hanno largamente prevalso sui temi del lavoro, con percentuali comprese tra l’80 e l’85%. Ma il quorum non è stato raggiunto, rendendo di fatto nullo il risultato.
Il quesito sulla cittadinanza è stato il meno votato in termini di consensi. Nonostante fosse considerato il simbolo politico della sinistra, ha raccolto un numero più alto di “no” rispetto agli altri.
"Un pezzo di elettorato di centrosinistra non era d'accordo sull'abbreviazione dei tempi da 10 a cinque anni per ottenere la cittadinanza italiana. E questo è un elemento politicamente molto significativo", sottolinea Fusi.
"Il centro-nord ha risposto in maniera più efficace alla chiamata referendaria, mentre il centro e il sud, soprattutto in particolare la Calabria, hanno disertato in maniera massiccia le urne", spiega Fusi. Solo in 28 comuni italiani si è superato il quorum, 11 dei quali erano coinvolti in ballottaggi amministrativi.
A destra, l’astensione è stata letta come una vittoria. I partiti di governo avevano invitato a non votare, contribuendo così al mancato raggiungimento del quorum. Secondo il centrodestra, la bassa partecipazione avrebbe confermato il fallimento di un tentativo di usare il referendum come strumento di pressione sull’esecutivo.
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha parlato di "elettori schifati dal clima di odio", commenta Fusi.
Il flop referendario ha riacceso il dibattito sull’efficacia dello strumento. "Tutto questo dovrebbe portare, e sta in realtà portando, ad una riflessione anche sullo strumento referendario", spiega Fusi, "sulla necessità, cioè, di rivedere le regole sia per la raccolta di firme che adesso sono possibili anche online, sia per il quorum che per renderli effettivi".