La vita di Annibale Migliucci attraversa l’Italia del dopoguerra e il coraggio dell’emigrazione fino ad approdare sul palco di Sydney.
Nato in una famiglia numerosa – sei figli e una madre rimasta vedova a soli 38 anni – ha conosciuto presto la fatica e la responsabilità. “Quando mio padre è morto, io avevo 13 anni, la più piccola solo un anno. Senza soldi, senza casa, abbiamo fatto la vita da poveretti. Ma da ragazzo ho cominciato a lavorare e ci siamo tirati su. Ho fatto anche il maestro di tennis e guadagnavo anche bene. Poi a 20 anni ho trovato lavoro in una ditta tessile a Prato”, racconta Annibale a SBS Italian.
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Dopo aver scartato l’ipotesi Sudafrica, su consiglio di connazionali incontrati all’ambasciata, la destinazione fu l’Australia. “Non sapevo nemmeno dove fosse. Ma all’ambasciata australiana ho avuto una buona impressione. Tornato a casa dissi a mia moglie: ‘che fai, andiamo in Australia?’. Lei rispose: ‘boh, andiamo’. E così a giugno del ’69 siamo arrivati a Sydney. Ci hanno portati a Villawood: pensavo fosse una villa, invece era un centro di accoglienza”.
L’inizio non fu semplice: “Non parlavo inglese, meno male che i figli hanno imparato subito. Mia moglie era più brava di me. Io ho cambiato parecchi lavori, poi ho comprato una piccola impresa di pulizie e l’ho portata avanti fino alla morte di mia moglie, nel ’94”.
Da lì, una svolta inattesa: il teatro. “Da ragazzo mi piaceva, ma pensavo di avere una voce da gallinaccio spennato. Poi, sentendo Marlon Brando in inglese, ho capito che non conta la voce, conta come interpreti. E ho cominciato. A Sydney abbiamo portato in scena il Gianni Schicchi di Puccini, trasformato in prosa. Alla prima c’erano mille persone: un successo incredibile”.

Credit: courtesy of Annibale Migliucci
“Io guardavo il pubblico. Se sentivo dagli sguardi che eravamo bravi, quella era la vera soddisfazione. Non mi interessavano le critiche. Il teatro è stato la mia seconda vita”.