Negli ultimi anni, l’uso delle app di localizzazione si è diffuso in modo capillare nelle famiglie. Strumenti come Life360, Google Family Link o Find My iPhone promettono di offrire sicurezza, ma pongono interrogativi sempre più urgenti su cosa significhi oggi fidarsi e lasciare andare.
La possibilità di sapere in tempo reale dove si trovano i propri cari, se si muovono a piedi o in auto, quanta batteria hanno nel telefono, se sono entrati a scuola o rientrati a casa, può apparire rassicurante. Ma è davvero sempre un bene?
“Ce ne sono veramente tante", osserva Davide Gaido, esperto di tecnologia e padre, al microfono di SBS Italian. "Alcune sono self-hosted, cioè te le puoi installare tu da solo su un tuo server e mantenere la privacy”. Ma chi gestisce davvero i dati? A chi sono accessibili? E cosa può succedere in futuro?
“Questa è la cosa che inquieta di più: avere potenzialmente anni e anni di storia dei movimenti di un’intera famiglia salvata da qualche parte che non si sa bene”, spiega Davide.
I dati, anche se non venduti ufficialmente, esistono, e il solo fatto che siano registrati da aziende “for profit” solleva interrogativi legittimi. “Quello che è vero oggi, non è detto che sarà vero domani”, ricorda Davide. E questo vale anche per l’uso che in futuro potrebbe essere fatto di quei dati, in contesti come il lavoro, la sanità, o perfino la vita sociale.
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Ma se da un lato la tecnologia corre, dall’altro i comportamenti umani si adattano, spesso troppo in fretta, a nuovi modelli di relazione.
“In realtà queste app non risolvono l’ansia, tutt’altro: purtroppo la fomentano. C’è un grande aspetto dell’illusione del controllo da parte dei genitori”, commenta Marco Zangari, Team Leader Counseling al Co.As.It. di Sydney.
Secondo Zangari, le app rischiano di intaccare un processo cruciale nella crescita: quello di separazione e individuazione, soprattutto durante la preadolescenza e adolescenza. “Il fatto di poter prendere delle decisioni autonomamente e sapere che quelle sono delle decisioni che possono essere corrette o meno, ma di cui ci si assume la responsabilità, può essere assolutamente influenzato dall’uso di queste app”.
Il tema si complica ancora di più se si considera che l’idea di essere tracciati sta assumendo un valore affettivo: “Il rischio è quello di dover dare via la nostra autonomia per rassicurare l’altra persona o il familiare o il partner. E questo chiaramente è un enorme rischio”, spiega Zangari.
Eppure, l’esperienza concreta delle famiglie racconta una realtà fatta di sfumature, compromessi, e tentativi quotidiani di trovare un equilibrio. Alessia, madre di due adolescenti, ha installato Life360 : “Abbiamo deciso di installare l’app da quando i ragazzi hanno dieci anni perché si muovono da soli per andare a scuola e io, lavorando lontano, mi sentivo un pelo più sicura”, dice.
Ma non è solo la paura a spingerla verso l’uso di questi strumenti. È anche la difficoltà, paradossale, di comunicare: “I ragazzi non usano il telefono come strumento di comunicazione attivo. Non prendono il telefono per dire ‘sto andando in quel posto’. L’unico modo per capire dove si trovano e che sono ancora vivi è il fatto di avere questa app installata”.
Ma non tutti in famiglia sono sulla stessa lunghezza d’onda. Giovanni, marito di Alessia e padre dei ragazzi, non ha mai voluto installare l’app sul proprio telefono: “I ragazzi si muovono con mezzi, ma hanno anche raggiunto un’età per cui secondo me la fiducia dovrebbe prevalere”.
Nel mondo iperconnesso di oggi, dove ogni passo può essere registrato, la domanda resta aperta: quanto controllo è necessario per sentirsi al sicuro? E a quale prezzo?