Molto spesso i giovani italiani che si sono trasferiti all’estero dopo la crisi finanziaria del 2008 non amano definirsi “migranti”, né "emigrati".
Preferiscono parlare di mobilità anziché di migrazione, dando al termine “migrazione” un’accezione in un certo senso negativa. Questo è quanto emerge da uno studio condotto dalla docente dell'Università di Torino Roberta Ricucci, che oltre ad analizzare la situazione ha cercato anche di spiegarsi il perché di questa volontà di prendere le distanze dalle migrazioni del presente e del passato.
“Nella percezione di molti degli intervistati la nozione di migrante è connotata negativamente”
Agli occhi delle persone intervistate nell'ambito della ricerca della prof. Ricucci l’immigrato è colui che ha bisogno, è colui che ha un progetto di realizzazione soprattutto economica: "dal loro punto di vista la partenza è stata una scelta, personale non familiare" spiega la docente, che aggiunge che per gli intervistati il trasferimento in un altro Paese viene visto come "una scelta reversibile, in cui ricevono aiuto dalle famiglie e non mandano aiuto alle famiglie".
Cliccando sul tasto play sulla foto potrete ascoltare Roberta Ricucci intervistata a margine del simposio "Diaspore Italiane" che si è svolto recentemente a New York al John D Calandra Institute. Il titolo del suo intervento era “Please don’t call us immigrants! Take the right distance from unwelcome and stigmatized identities”.
Da Diaspore Italiane:

Tra italiano, inglese e dialetto: la lingua degli immigrati di Ellis Island