Continuano ad arrivare informazioni riguardanti i due killer che domenica scorsa hanno aperto il fuoco sulla folla a Sydney uccidendo 15 persone e ferendone più di 40. Le vite di Naveed Akram, 24 anni, e del padre Sajid, 50, sono state scandagliate negli ultimi giorni. Emergono indagini dell'intelligence australiana su presunti legami di uno dei due con lo Stato Islamico.
Ma come cercare di analizzare quanto accaduto? Cosa può dirci questa strage relativamente alla minaccia terroristica in Australia? È il frutto di una scarsa attenzione o il difficilmente prevedibile gesto sconsiderato di due esaltati?
L'uso di una bandiera non implica la presenza di una catena di comandoMatteo Vergani
"È vero che l'ISIS sta tornando a reclutare, ma funziona spesso come un brand: alcuni elementi che di fatto non sono collegati allo Stato Islamico ne mostrano i simboli senza tuttavia appartenervi", ha spiegato Matteo Vergani, professore associato alla Deakin University e direttore del Tackling Hate Lab.
Vergani ha anche analizzato l'efficacia delle vigenti norme sul porto d'armi, che dopo il massacro di Port Arthur nel 1996 subirono un giro di vite. Nell'aprile di quell'anno un 28enne tasmaniano uccise 36 persone, e quello fu un evento che scosse le coscienze degli australiani e cambiò anche il rapporto degli australiani con le armi.
Prova ne furono le quasi 400mila persone che restituirono le armi a un anno di distanza dal massacro. All'indomani della strage di Bondi, il governo ha annunciato un ulteriore giro di vite alla legge sul possesso di armi. La domanda quindi nasce spontanea: cos’è cambiato da quel 1996?
"Direi molto, e numeri alla mano quelle leggi hanno funzionato bene", spiega Vergani, "anche se va detto che nel tempo le restrizioni si sono indebolite, le licenze sono più facili da rinnovare e i controlli sul numero di armi possedute sono un po' disomogenee da Stato a Stato. Quindi una revisione è necessaria, ma è certo che la lezione di Port Arthur è stata appresa pienamente", ha proseguito.




