Talking Hands, un progetto italiano per richiedenti asilo

Talking Hands

Embroidery as a community work and opportunity to exchange knowledge and skills. Source: courtesy of Talking Hands

Andiamo a Treviso per conoscere un progetto che coinvolge giovani richiedenti asilo approdati nella città veneta.


Si chiama Opificio Talking Hands - Con le mani mi racconto il progetto nato a Treviso di cui ci ha parlato uno degli organizzatori, Fabrizio Urettini. Il nome è un riferimento ai partecipanti: giovani richiedenti asilo che spesso non parlano molto bene l’italiano, ma che trovano parola e dignità attraverso il lavoro manuale.

Fabrizio Urettini racconta che l’Opificio vuole essere una risposta alla nuova popolazione arrivata nella città veneta a partire dal 2015, composta di circa 2000 richiedenti asilo. Si è iniziato con una palestra, che mirava ad offrire la possibilità di “riattivarsi” fisicamente e mentalmente, per poi passare ad attività manuali.

L’idea è scaturita dal dialogo con gli stessi ragazzi, con i quali è stata fatta una sorta di “mappatura di ciò che sapevano fare o desideravano fare”, spiega Urettini, una mappatura che ha portato ad individuare una varietà molto ampia di competenze, “dalla falegnameria, al ricamo, al cucito, alla sartoria, alla saldatura, e da lì è nata quest’idea un po’ rinascimentale dell’opificio, della bottega”.
One of the men involved in the Talking Hands project
One of the men involved in the Talking Hands project Source: courtesy of Talking Hands
I giovani partecipanti del progetto "Talking Hands" provengono soprattutto dall’Africa subsahariana, dal Gambia al Mali, dal Senegal alla Costa d’Avorio e al Niger, e mediamente hanno tra i 20 e i 30 anni, anche se ci sono stati tra loro anche ragazzi più giovani. Alcuni di loro hanno imparato un mestiere nel lungo viaggio che li ha portati in Italia, molti hanno competenze manuali che, sottolinea Urettini, i loro coetanei italiani generalmente non hanno. I ragazzi partecipano con entusiasmo ed orgoglio al progetto, desiderosi di mettere alla prova le proprie abilità.

“Per loro l’atelier non è solo un luogo di lavoro ma anche una casa”, sottolinea Urettini, aggiungendo che “la cosa importante è stata anche responsabilizzarli nei confronti dello spazio, quindi gli sono state date le chiavi dell'atelier e la gestione economica è stata affidata ad un “banchiere”, a sua volta un richiedente asilo… Per darvi un termine di paragone uno stipendio medio in Gambia è di circa 50 euro al mese, per loro quindi l’idea di spendere anche solo un euro è una cosa terribile... non avrei potuto trovare banchiere migliore”.
“Rifúgiati” are micro-spaces for children drawn by designer Matteo Zorzenoni in collaboration with Talking Hands Project
“Rifúgiati” are micro-spaces for children drawn by designer Matteo Zorzenoni in collaboration with Talking Hands Project Source: courtesy of Talking Hands
“Rifùgiati” è il progetto che ha iniziato questa esperienza. “I ragazzi sono ragazzi che vivono nel nostro tempo e si vestono come i loro coetanei italiani”, ragion per cui, spiega Urettini, si è cercato di sfuggire all’esotismo a tutti i costi: anziché produrre prodotti che rispecchiassero “l’iconografia dell’artigianato etnico”, sono stati coinvolti designer locali.

Insieme a Matteo Zorzenoni, Talking Hands ha prodotto per esempio delle microarchitetture domestiche, nate per i bambini. “I bambini amano nascondersi, trovarsi dei piccoli spazi dove costituirsi delle specie di comfort zone e da lì è nata questa serie di oggetti”, racconta Urettini. Zorzenoni ha avuto non solo l’intuizione del nome, che spostando un accento trasforma il sostantivo rifugiàti nell'esortazione rifùgiati, ma anche quella di lasciare uno spazio espressivo ai ragazzi (i richiedenti asilo di Talking Hands), che hanno decorato in modo originale le forme create da Zorzenoni.
Talking Hands
Blue Carpet Source: courtesy of Talking Hands
Talking Hands non è l’unica esperienza di questo tipo in Italia, tiene a ricordare Fabrizio Urettini: ci sono molte esperienze simili, forse perché “c’è una tradizione un po’ innata, nel nostro Paese, legata alla cultura dell’arte di arrangiarsi, del non aspettare che arrivi l’aiuto ma del tirarsi su le maniche e darsi da fare, forse anche un sistema di welfare un po’ più scricchiolante rispetto ad altri Paesi, fatto sta che stanno nascendo tantissime esperienze significative di una voglia di dare risposte dal basso a questo problema, o ricchezza, dei flussi migratori”.

Urettini cita per esempio “Cantieri meticci”, che a Bologna ha creato una compagnia teatrale composta interamente da richiedenti asilo che partecipano anche alla costruzione delle scenografie, degli spettacoli, dell’illuminotecnica. Ma ricorda anche il progetto “Senza peli sulla lingua”, nato nel quartiere di San Siro, a Milano, rivolto soprattutto alle donne migranti e basato sul lavoro di gruppi di discussione e sulla produzione di T-shirt che vengono vendute diventando fonti di micro reddito.
“Una ricchezza del nostro Paese (di cui, ahimé, si parla molto poco) è questo non aver aspettato l’aiuto ma essersi tirati su le maniche ed essersi messi in gioco”
Talking Hands
Embroidery is one of the activities at Talking Hands Opificio Source: courtesy of Talking Hands
Ma qual è stato l'impatto di Talking Hands sulla vita dei giovani partecipanti? “Nel Veneto il lavoro è una specie di seconda religione, chi lavora gode di uno status speciale agli occhi della gente", osserva Urettini, che ricorda un episodio significativo: "noi l’abbiamo toccato con mano andando nei negozi, nelle ferramenta: le prime volte magari visti con sospetto, vedevano tutti questi ragazzi che arrivavano dentro e magari ci mettevano dietro il commesso dietro per paura che rubassimo qualcosa; la seconda volta magari ci chiedevano 'ma che cosa fate, come mai comprate tutte queste attrezzature?'; la terza volta magari il commesso ci diceva 'guarda, ci hanno lasciato qui un trapano, è vecchio, ne hanno comprato uno nuovo, ve l’ho tenuto da parte e ve lo regalo'”.

Secondo Urettini il lavoro non offre solo ai ragazzi una possibilità di esprimersi e mettersi in gioco, ma contribuisce anche a sfatare stereotipi diffusi e consolidati.
"Il lavoro, soprattutto in regioni come il Veneto che hanno nel lavoro un vero e proprio valore, dà una sorta di titolo di cittadinanza" Fabrizio Urettini

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