Migliaia di persone si sono riunite il 12 marzo a Port Moresby, la capitale della Papua Nuova Guinea, per celebrare i funerali di stato di Sir Michael Somare, l’amato padre della nazione che ha assicurato l'indipendenza del Paese dall'Australia.
La cerimonia si è svolta nello stesso stadio dove nel 1975 il primo Primo Ministro nella storia del Paese ha abbassato la bandiera australiana per issare quella dello stato indipendente papuano.
In molti temevano che l’evento potesse rappresentare un pericolo per la popolazione a causa del rapido aumento nel numero dei casi di COVID-19, tanto che il Primo Ministro James Marape ha dichiarato che se non si provvede presto a contenere la situazione il sistema sanitario nazionale rischia il collasso.
Timori che sembrano poi essere stati confermati dai numeri: secondo i dati registrati il 17 marzo, sono oltre 2350 casi attivi in PNG, con 26 decessi da inizio pandemia su una popolazione di 7 milioni di abitanti. L’aumento è nell’ordine dei 100 casi in 24 ore.
Il numero di test eseguiti fino ad ora è molto basso non perché solo fare il tampone per il COVID-19 ha un costo, ma anche per lo stigma culturale che circonda i contagi.
Tim Costello, il direttore esecutivo di Micah Australia - la più grande organizzazione non governativa cristiana in Australia - ha parlato della situazione definendola una “catastrofe sanitaria”.
Secondo Costello, sostenere il fragile sistema sanitario della Papua Nuova Guinea proteggerà anche gli australiani da una potenziale nuova ondata di contagi, data la vicinanza dei due Paesi.
Il primo ministro Scott Morrison si è impegnato ad inviare 8000 dosi di vaccino AstraZeneca da somministrare al personale medico papuano, oltre a materiale protettivo inclusi guanti, 1 milione di mascherine e occhiali protettivi.
Il governo australiano intende anche inviare una richiesta formale ad AstraZeneca e alle autorità sanitarie europee per far inviare dosi consistenti di vaccino in PNG.
La Papua Nuova Guinea si trova a 80 miglia nautiche dall’Australia, a circa 150 km a nord del Queensland, una prossimità che preoccupa Canberra, tanto che le autorità federali hanno annunciato la sospensione per due settimane di tutti i voli di linea e charter in entrata e in uscita da Port Moresby, ad eccezione degli spostamenti per ragioni sanitarie.
Secondo alcune associazioni, la crisi sull’isola sarebbe solo all’inizio: si stima infatti che il 20% delle donne incinte hanno contratto il coronavirus. Per questo, alcuni attivisti hanno chiesto che i rifugiati nei centri di detenzione 'offshore' vengano riportati in Australia.
Ian Rintoul di Refugee Action Coalition ha dichiarato che nelle ultime due settimane sei rifugiati che erano stati trasferiti dal centro di Manus Island a Port Moresby sono risultati positivi al COVID: “sta emergendo una situazione disperata che creerà una crisi nella crisi per i rifugiati e per i richiedenti asilo che non saranno in grado di ottenere le cure adeguate. È davvero spaventoso che la quantità di risorse che il governo australiano ha messo a disposizione per il programma di detenzione ‘off shore’ non venga assicurato anche per fornire supporto necessario a queste persone”.
Circa 140 tra rifugiati e richiedenti asilo che il governo australiano ha inviato a Manus Island nel 2013 sono ancora in Papua Nuova Guinea.
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